«Io nell’inferno dell’Afghanistan»

«Gli afghani avrebbero amato Giacomo Leopardi non perché siano degli inguaribili pessimisti. Credo che ne avrebbero apprezzato la malinconia e la profonda sensibilità poetica che costituisce una cifra fondamentale della loro stessa natura. È strano che un popolo che si sente vivo solo se impugna un fucile abbia un debole per la poesia». Inizia così un capitolo del libro “L'inferno chiamato Afghanistan. Storie del paese dei talebani” (Lampi di stampa, 2012) che l'autore Giuseppe Bresciani ha presentato lunedì 19  alle 21 al Collegio Senatore (via Menocchio 1), nell'ambito del Festival dei Diritti. Dialogando con Marco Dotti, l’autore ha parlato della sua esperienza in Afghanistan durante la quale - munito solo di un visto turistico e privo di credenziali, senza mansioni e scorta armata - ha scoperto quanto questo paese dilaniato dalla guerra sia diverso da come viene raccontato nei reportage giornalistici. Nato a Como, 57 anni, ex imprenditore umanista, scrittore, opinionista e giornalista del quotidiano la Provincia di Como e già autore di romanzi pubblicati con lo pseudonimo “Astor”, Giuseppe Bresciani ha esordito con il suo nome anagrafico con questo terzo libro: non un saggio né un romanzo, ma un mosaico narrativo che delinea i contorni della vita “infernale” del popolo afghano, scandita da momenti felici e momenti disperati, mettendo a nudo le condizione femminile e quella non meno drammatica dei bambini, la quotidianità nelle carceri e nei campi per sfollati, i retroscena delle operazioni di guerra e di pace del nostro contingente militare, la vera destinazione degli aiuti umanitari, il fenomeno dilagante della droga, il vuoto sanitario, la corruzione politica, ma cogliendo anche gli aspetti poetici di un popolo condannato alla guerra.
Bresciani, perché è andato in Afghanistan?
«Per curiosità: quando mia figlia ha accettato un lavoro in una organizzazione non governativa afgana ho deciso di accompagnarla e poi sono rimasto tre mesi. Tre mesi trascorsi con la sensazione di essere invisibile, per quanto sia impossibile esserlo in un paese in guerra, in cui sono passato per pazzo e per agente segreto del Sisde perché non avevo credenziali e tutela e perché alla Franesina non c'erano faldoni a mio nome. Ho vissuto nelle case degli afgani e, libero da ogni vincolo, mi sono mosso dappertutto, molto più di quanto possano vedere giornalisti e funzionari aggregati alla colonna militare».
Per esempio?
«Mi sono fatto accompagnare nel carcere della morte, sono entrato in una moschea di venerdì pomeriggio durante la preghiera e ho fatto un pic nic in un territorio controllato dai talebani, perché ero al seguito di un signore della guerra. In Afghanistan ho imparato che il fattore sorpresa è destabilizzante, ho capito che gli afgani fanno più attenzione a chi è particolarmente protetto, ma per loro trovarsi di fronte un occidentale che passeggia liberamente per le strade di Kabul, spesso vestito da afgano, non era motivo di preoccupazione. Anche se non è stata una passeggiata: ho subito due attentati e sono stato arrestato».
Di chi ha avuto più paura?
«Dei militari americani. Mentre i nostri militari hanno l'ordine di sparare solo dopo essere stati attaccati e mai prima di un colpo di avvertimento, americani e inglesi girano per le strade con le armi spianate e il colpo in canna, con l'ordine si sparare al minino sospetto di pericolo. Questo causa migliaia di morti civili innocenti. Noi italiani non siamo esenti da accordi e baratti con i signori della guerra, ma tra gli “occupanti” siamo di sicuro quelli che si comportano meglio: abbiamo costruito strade, scuole e rifugi per le donne e per questo gli afgani, anche se non ci amano, ci rispettano».
Marta Pizzocaro

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