Responsabilità, parola che da noi non trova casa

di GIORGIO BOATTI Le colpe? Sono sempre degli altri. Gli oneri? Da qualche parte devono andare, purché non a casa nostra. E gli errori? Li fanno tutti, ad eccezione di noi stessi. C’è una parola, sull’attuale ribalta pubblica e privata italiana, di cui si sente fortemente la mancanza e questa parola si chiama “responsabilità”. Dunque ben venga la scelta di dedicarle la settima edizione del Festival dei Diritti, che si tiene a Pavia dal 5 al 30 novembre per iniziativa del Csv (Centro Servizi Volontariato, che associa oltre 100 associazioni non profit che operano sul territorio della provincia nei più svariati settori, dall’assistenza alla cultura, dalla sanità alla formazione, dall’ambiente al tempo libero, dallo sport al teatro). Certo può sembrare un controsenso che, in una rassegna che proclama di volersi occupare dei diritti, ovvero di ciò che ci spetta, come persone, cittadini e comunità, si orienti l’attenzione a un tema che se non sta di fronte – il dovere – sta senza dubbio a lato. Sta così a lato che, spesso e volentieri, si finisce col dimenticare che ci sia, o che cosa sia. A proposito, che cosa è la responsabilità? Gli organizzatori del Festival ne danno una così eccellente definizione che non si può che riprenderla in toto: “essere responsabili significa impegnarsi a rispondere, a qualcuno o a se stessi, delle proprie azioni e delle conseguenze che ne derivano… La responsabilità è la possibilità di prevedere le conseguenze del proprio comportamento e correggere lo stesso sulla base di tale previsione”. Decine di incontri, di spettacoli, di presentazioni di libri scandiranno in vari luoghi della città lo svolgersi del Festival, che fa la scelta saggia di iniziare, il pomeriggio di martedì 5 novembre, dalla questione della responsabilità dei e verso i più giovani. Perché responsabili non si nasce, si diventa: attraverso l’educazione, l’esempio, il coinvolgimento offerto dalla famiglia, dalla scuola, dal mondo che si frequenta. Certo, di questi tempi, la responsabilità non va molto di moda, soprattutto in Italia. Siamo un Paese in difficoltà – inutile riprendere ancora una volta i dati drammatici su disoccupazione, difficoltà economiche delle famiglie, ritardi della politica e dello Stato nel far fronte alle proprie responsabilità. L’ultimissimo capitolo su questo fronte l’ha scritto la decisione del governo di tagliare, per il prossimo anno, lo stanziamento di alcune decine di milioni di euro che era stato già deciso a favore delle università “virtuose”. Per la prima volta atenei che hanno saputo coniugare con saggezza risparmi nelle spese correnti con ottime performance nella ricerca – l’Università di Pavia è tra queste realtà virtuose e in buonissima posizione – avrebbero avuto una quota di finanziamenti superiore rispetto a realtà più spendaccione e meno capaci di distinguersi sul fronte della ricerca. La recente classifica dell’Anvur, proprio sui risultati, ateneo per ateneo, sul fronte della ricerca scientifica, serviva anche a determinare le priorità nell’assegnazione dei finanziamenti. E invece, all’ultimo momento, a Roma, strattonati da tante sollecitazioni di parte, si è deciso che non sarà così: si continuerà come si è sempre fatto. Ancora una volta i finanziamenti saranno a pioggia, indistintamente. Il merito e l’impegno, in una parola, la responsabilità, non avranno il riconoscimento che avrebbero dovuto finalmente avere. Inutile negarlo: la responsabilità è una pianta che fa fatica a crescere nella nostra penisola e, forse, nel clima latino. Non a caso se sfogliate un dizionario etimologico scoprite che, nel significato che ha assunto attualmente, il termine giunge a noi da lontano, dal termine inglese responsability che comincia a diffondersi, dopo la rivoluzione inglese del 1640-48. Il dizionario americano Webster le assegna il 1771 come data di nascita negli USA. Noi, purtroppo, presi da fanatismi rissosi e conformismi ideologici, dove determinare la rovina di qualcuno è assai più rilevante che perseguire il bene di tutti, veniamo da un’altra cultura e storia e abbiamo sempre faticato a cambiare strada. “Perché tutte e due le mani destinate a costruire città le tengono impegnate a maneggiare la spada contro nemici? Perché, buon Signore, non ne usano almeno una per edificare?”: se lo chiedeva, angosciato, Pierre Faber, il più fedele compagno di Ignazio di Loyola, il fondatore dei gesuiti, un secolo prima della rivoluzione inglese e qualche anno prima delle deliberazioni di quel Concilio di Trento che con la Controriforma cambiò non solo il cammino della Chiesa ma anche quello dell’Italia. Ora, seppur con una deviazione di qualche secolo, alla questione della responsabilità come elemento fondamentale di ogni effettiva cittadinanza, siamo arrivati anche noi. Che sia la volta buona? DRITTO E ROVESCIO - LA PROVINCIA PAVESE,3 novembre 2013

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