Mons. Ramazzini: Guatemala, un Paese dalle ferite aperte

Il Guatemala resta uno dei Paesi più poveri del mondo, dove un bambino su due soffre di malnutrizione cronica. Come si può spiegare questa situazione drammatica? Xavier Sartre lo ha chiesto a mons. Alvaro Leonel Ramazzini Imeri, vescovo della diocesi guatemalteca di Huehuetenango: R. – Si spiega con il fatto che quella guatemalteca è una società nella quale predomina il modello economico neoliberale che fa sì che i ricchi diventino più ricchi e i poveri più poveri. Il Guatemala ha sempre seguito questo modello economico, in tutta la sua storia, e che finora ha prodotto esclusione, emarginazione e ancora più povertà per i più poveri, in particolar modo per gli indigeni e per i contadini. Da un punto di vista religioso, è un Paese in cui nonostante il 98 per cento della popolazione si definisca cristiana, non si vive in maniera coerente ai principi del Vangelo. E questo, almeno dal mio punto di vista di vescovo, è molto serio. Assistiamo ad una crisi molto, molto profonda dell’essere cristiano. Moltissime persone non capiscono che essere cristiano significa seguire il Signore Gesù, imitare il suo stile di vita che comporta non soltanto carità ma anche lotta per la giustizia e per il rispetto degli esseri umani. D. – Perché, secondo lei, c’è sempre più differenza tra i ricchi e i poveri? R. – Lei sa che – come ha detto Papa Francesco nella sua recente Esortazione Apostolica – c’è questa mentalità di servire sempre più il “dio denaro”, e questo fa dimenticare che ci sono tantissime persone che soffrono. In fondo, il problema del Guatemala è che manca la vera adorazione di Dio, non si trova il Signore Gesù nei poveri. Parlo di una crisi molto, molto profonda del cristianesimo guatemalteco. D. – Il problema della ripartizione delle terre rimane comunque uno dei maggiori problemi del suo Paese… R. – Certo. Infatti, non abbiamo mai avuto una riforma agraria. Alcuni anni fa, il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace aveva scritto un documento che è stato per noi di grande orientamento. Bisogna considerare che in Guatemala moltissime persone non conoscono il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, anche se noi cerchiamo di farlo conoscere. Quindi, i principi della Dottrina sociale della Chiesa non sono seguiti. Tra questi, ad esempio, il fatto che i beni della terra sono per tutti e non soltanto per un piccolo gruppo di persone. D. – C’è un altro problema: la violenza nelle città. L’urbanizzazione del Paese piuttosto che favorire migliori condizioni di vita, sembra aver contribuito a far aumentare la violenza e la povertà. Perché? R. – Perché ci sono tantissimi giovani che sono nati in famiglie disintegrate, famiglie distrutte e quindi non hanno neanche avuto l’opportunità di sentirsi amati. E questo ha dato come risultato la presenza di questi gruppi, che noi chiamiamo “las maras”: sono gruppi veramente violenti, risultato della povertà, della mancanza di opportunità per i giovani, della mancanza di istruzione, di opportunità di lavoro … Secondo me, la violenza maggiore che stiamo soffrendo adesso, in Guatemala, è proprio la povertà, che crea poi questi risultati dei quali stiamo parlando. D. – La guerra civile è durata 36 anni: sono sempre aperte le ferite di questo conflitto a 16 anni dalla sua fine? R. – Penso di sì. Uno dei segni di questo è il fatto che abbiamo perso la capacità di dialogare, di trovarci insieme per affrontare i nostri problemi. Poi, c’è un certo sentimento di vendetta in molte persone che hanno sofferto tanto, durante la guerra, e nonostante i nostri sforzi di portare avanti non solo un discorso sulla riconciliazione, ma anche una pratica della riconciliazione, troviamo che molte ferite sono ancora aperte, e per me questo significa che noi pastori dobbiamo veramente cercare di promuovere programmi di assistenza psicologica, perché molta gente non riesce a superare le ferite lasciate dalla guerra civile. D. – In questo contesto, qual è il ruolo che può ricoprire la Chiesa nel Paese? R. – Continuare ad annunciare il Vangelo che è sempre seme, ma soprattutto forza per riuscire a raggiungere la pace. Per me, però, è molto importante ricordare le parole del Beato Giovanni XXIII nella sua Enciclica “Pacem in terris”, quando ha ricordato che non si può avere una vera pace se non la si fonda su quattro colonne: la giustizia, la verità, la libertà e la carità. Credo che noi pastori del Guatemala dobbiamo cercare il modo di far sì che queste colonne possano stare lì, che le possiamo sostenere al fine di trovare questa pace della quale il Paese ha bisogno.

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